“Sono forse io il custode di mio fratello?” (Genesi 4,9).
Tra le migliaia di domande della Bibbia, quella che Caino rimbalza su Dio – il quale gli aveva chiesto dove fosse suo fratello Abele – è la più drammatica di tutte. Esprime nello stesso tempo menzogna, indifferenza e cinismo.
Caino sapeva benissimo dov’era suo fratello, perché l’aveva appena ucciso e lasciato steso al suolo. Colpisce, nel breve episodio, la ripetizione del termine “suolo” per ben sei volte. Caino, del resto, era un “lavoratore del suolo”, cioè un agricoltore. Ad un certo punto, sembra che nell’assassinio di Abele sia stato gravemente offeso non solo il fratello ucciso e nemmeno solo il Signore, ma anche il suolo. Dio infatti dice a Caino che dovrà andare “lontano dal suolo che ha aperto la bocca per ricevere il sangue” di Abele; e gli riferisce che anche il suolo protesta contro la sua mano omicida: “quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti”.
L’intero creato, insieme al Creatore, si rivolta contro il crimine fratricida. Fin dalle prime pagine della Bibbia, grande parabola intesa a svelare non dei fatti storici ma il cuore umano, “tutto è connesso”: Dio, l’uomo, il suolo. Del resto proprio questa parola, “suolo”, in ebraico adamàh, contiene la parola “uomo”, adàm. E il termine con il quale Caino tenta di discolparsi, “custode”, in ebraico shomèr, ricorre come verbo pochi capitoli prima (2,15), quando Dio pose Adamo nel giardino perché lo coltivasse “e lo custodisse” (shamàr). L’uomo è dunque custode del fratello e del giardino, è guardiano del proprio simile e della terra. Adamo e Caino, usurpando il posto di Dio, saranno cattivi custodi del creato e dei fratelli. Quando si lascia incustodito il suolo, ne soffre anche il fratello; e quando si maltratta il fratello, anche il suolo si affligge.
Le Scritture ebraiche e cristiane leggono in profonda connessione la custodia della natura creata e la custodia della società umana. San Francesco arriverà a chiamare con lo stesso termine, “fratello” e “sorella”, l’una e l’altra. “Frate” per lui è il compagno che condivide il battesimo e la vita religiosa, ma è anche il sole, il vento, il fuoco. “Sora” per lui è Chiara, è ciascuna donna, ma è anche l’acqua, la terra, la luna. La “rete fraterna” intessuta da San Francesco indica già, con singolare profezia, gli elementi del creato che oggi vengono valorizzati come fonti di energia pulita: sole, aria, acqua, vento, terra… L’intreccio tra la custodia per i propri simili e la custodia per l’ambiente non è certo un’invenzione dei nostri tempi: quando papa Benedetto XVI parla di “ecologia umana” e papa Francesco di “ecologia integrale”, danno voce ad una tradizione biblica e cristiana di millenni.
“Sei proprio tu il custode di tuo fratello”: così sottintende il Signore nella sua risposta a Caino: “la voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo”. La terra, bagnata di sangue, grida insieme all’innocente ucciso. “Il grido della terra e il grido dei poveri”, come li definisce papa Francesco nell’enciclica Laudato si’ (24 maggio 2015, n. 49), si mescolano assieme.
Già mezzo secolo fa, quando ancora pochi coglievano il rapporto tra questione ambientale e questione sociale, scriveva papa Paolo VI: «non soltanto l’ambiente materiale diventa una minaccia permanente; inquinamenti e rifiuti, nuove malattie, potere distruttivo totale, ma è il contesto umano, che l’uomo non padroneggia più, creandosi così per il domani un ambiente che potrà essergli intollerabile; problema sociale di vaste dimensioni che riguarda l’intera famiglia umana» (Octogesima Adveniens, 14 maggio 1971, n. 21). Nella sua prima enciclica, Giovanni Paolo II rilanciò l’allarme, ricordando «certi fenomeni, quali la minaccia di inquinamento dell’ambiente naturale nei luoghi di rapida industrializzazione, oppure i conflitti armati che scoppiano e si ripetono continuamente, oppure le prospettive dell’autodistruzione mediante l’uso delle armi atomiche, all’idrogeno, al neutrone e simili, la mancanza di rispetto per la vita dei non nati» (Redemptor hominis, 4 marzo 1978, n. 8). Papa Wojtyła, in ventisette anni di pontificato, è poi ritornato decine di volte sulla connessione tra temi ecologici e sociali. Così come Benedetto XVI, che vi dedica ampio spazio all’interno della sua enciclica sociale, arrivando a dire: «il sistema ecologico si regge sul rispetto di un progetto che riguarda sia la sana convivenza in società sia il buon rapporto con la natura» (Caritas in veritate, 29 giugno 2009, n. 51). Anche i grandi documenti ecumenici, scritti insieme alle Chiese ortodosse e alle Comunità protestanti, hanno offerto contributi notevoli e apprezzati. Nel solco dei suoi predecessori, papa Francesco dedica un’intera enciclica all’argomento, prendendo in prestito le prime parole, come abbiamo visto, dal Cantico delle creature di San Francesco e indicando come sottotitolo “la cura della casa comune”.
L’idea della casa, in greco òikos o oikìa, è contenuta nel termine stesso di “ecologia”, che significa “governo/gestione della casa”.
Proprio l’immagine della casa, insieme a quella del giardino e del suolo, ci aiuta a capire bene la connessione tra uomo e natura, di cui lui è coltivatore e custode. Dio affida all’essere umano una “casa”, il creato, formata da abitazione, orto e giardino. Consegnando alla sua creatura intelligente il resto delle creature, Dio non fa un rogito, non opera un passaggio di proprietà, ma semmai fa un comodato, assegnando un bene con il compito di utilizzarlo responsabilmente e restituirlo in buono stato. Ed è questa responsabilità a definire il compito umano della custodia della “casa”: responsabilità verso il padrone, verso la famiglia che la abita e la abiterà, verso la casa stessa, giardino e orto compresi. Se l’uomo è l’apice della natura, consapevole di esistere come soggetto, fatto a “immagine e somiglianza” di Dio (cf. Genesi 1,26-27), il resto della creazione non è semplice oggetto a disposizione dell’uomo, come materia inerte che lui possa sfruttare a proprio arbitrio.
L’equivoco – il tragico equivoco – che crea tanto disagio nel mondo moderno, è sorto dall’illusione che la natura fosse una cava più che una casa: una miniera inesauribile di materiali da estrarre e utilizzare senza criterio. Quando l’uomo si fa predatore della natura, anziché suo custode e coltivatore, la casa si trasforma in cava, il rispetto in profitto, la responsabilità in utilità. Un antropocentrismo esagerato, divenuto negli ultimi secoli una sorta di narcisismo, saldatosi con le diverse fasi della rivoluzione industriale, ha fatto scivolare talvolta l’uso in abuso delle risorse naturali; specialmente l’estrazione e il consumo dei combustibili fossili, senza un’adeguata regolazione, ha immesso progressivamente nell’atmosfera dei gas nocivi che l’hanno inquinata e hanno incentivato quell’effetto-serra che risulta la causa principale dell’aumento della temperatura media nel nostro pianeta, determinando il fenomeno del surriscaldamento globale, riconosciuto quasi unanimemente dalla comunità scientifica. Gli effetti, che in altre epoche si misuravano in migliaia o addirittura milioni di anni – le “ere geologiche” – sono ora percepibili in una scala di decenni: scioglimento dei ghiacciai, fenomeni atmosferici estremi, squilibri nella fauna e nella flora con la rapida scomparsa di specie animali e vegetali, disagi di intere popolazioni, compresa la lotta per l’acqua potabile, i conflitti per l’accaparramento delle risorse e le migrazioni climatiche.
Il legame tra il comportamento umano nei confronti dell’ambiente e nei confronti dei propri simili è evidente a chiunque non voglia chiudere gli occhi davanti alla realtà, ai dati e alle statistiche. È evidente, oggi più di qualche decennio fa, che il problema non è semplicemente tecnico, ma etico: si tratta di guadagnare non solo strumenti meno inquinanti, ma soprattutto comportamenti più responsabili. Le Conferenze internazionali, ormai annuali, rendono evidente come la sfida riguardi proprio l’etica: anche per questo i loro orientamenti spesso cadono nel vuoto, perché incontrano poi nei singoli Stati delle politiche maldisposte verso l’assunzione di impegni che implicano sacrifici, cambiamenti di stili e abitudini, e quindi appaiono impopolari e punitivi dal punto di vista elettorale.
Le società impostate su logiche prevalentemente economiche e finanziarie, come quelle imperanti nell’Occidente capitalistico o nell’Oriente dei grandi paesi emergenti – oggi Cina e India – faticano ad accettare culturalmente e ad integrare programmaticamente il valore della sobrietà, anzi il vantaggio della sobrietà: perché non procura un beneficio immediato, ma un giovamento su larga scala e sui tempi lunghi. Dove prevale la logica del consumo e del profitto, difficilmente si fa strada il senso della responsabilità verso gli altri popoli e le future generazioni.
In queste società la natura non solo non viene considerata una casa da custodire, ma nemmeno una semplice cava di materiali da estrarre; diventa piuttosto una cassa, un conto corrente alimentato dalla speculazione, da una logica di mercato e da una finanza spregiudicata. Impressionano certo i dati assoluti legati alla fame nel mondo, che colpisce ancora più di 820 milioni di esseri umani, e quelli legati alla sete, che riguarda più di un miliardo di persone. Ma questi dati, insieme ad altri indicatori delle povertà planetarie, potrebbero suscitare una reazione simile a quella di Caino: “sono forse io responsabile delle ingiustizie nel mondo?”. È allora più utile, per rendersi conto delle sperequazioni legate alluso delle risorse, considerare l’impronta ecologica, ossia l’area della superficie terrestre in grado di fornire le risorse occorrenti per il consumo quotidiano e lo smaltimento dei rifiuti. Per avere un termine di paragone, si pensi che l’impronta ecologica di un abitante degli Stati Uniti è 8,2, quella di un abitante del Bangladesh è 0,7; del resto, come è noto, l’1% ricco della popolazione mondiale possiede maggiori risorse rispetto al restante 99%. Volendo richiamare il tasso di inquinamento, si può ricordare che un cittadino nordamericano immette nell’atmosfera mediamente tanta anidride carbonica quanto due cittadini europei e 160 cittadini etiopi. Si intuisce l’inadeguatezza di un approccio puramente demografico alla questione ecologica: «incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e selettivo di alcuni è un modo per non affrontare i problemi» (Laudato si’, n. 50).
Se assumiamo una scala cronologica, possiamo misurare addirittura l’impronta ecologica dell’intero pianeta. Il 29 luglio 2019 è stato l’Earth Overshoot Day, il “giorno del sorpasso”, che si calcola ogni anno mettendo in rapporto la biocapacità del globo, cioè l’insieme delle risorse generate dalla terra, con l’impronta ecologica dell’umanità, cioè il consumo totale di risorse per l’intero anno.
In sette mesi, dal primo gennaio al 29 luglio, il pianeta ha dunque esaurito tutte le risorse naturali che è in grado di rinnovare in un anno. Nei successivi cinque mesi del 2019 l’uomo è vissuto “a credito”, consumando ciò che la terra non riesce a rigenerare. E non si tratta solo di cibo, ma anche di aria, terra e acqua: il sistema vegetale mondiale, attraverso la fotosintesi clorofilliana, può assorbire annualmente 20 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, a fronte dei 36 miliardi immessi nell’atmosfera, aggravando il riscaldamento globale e i cambiamenti climatici. Ciò che più preoccupa è che l’Overshoot Day continua a retrocedere: nel 1971 cadeva il 21 dicembre, nel 1981 il 12 novembre, nel 1990 il 13 ottobre, nel 2000 il 23 settembre, nel 2018 il primo agosto… Sembra che l’intero pianeta stia prendendo la forma di Leonia, una delle città fantastiche descritte da Italo Calvino: «ogni anno la città s’espande, e gli immondezzai devono arretrare più lontano; l’imponenza del gettito aumenta e le cataste s’innalzano, si stratificano, si dispiegano su un perimetro più vasto (…). Il risultato è questo: che più Leonia espelle roba più ne accumula» (Le città invisibili, 1972).
Negli incontri che si stanno moltiplicando dovunque e in tutte le sedi, anche nelle comunità cristiane, è facile che qualcuno esprima un senso di frustrazione e impotenza rispetto ai dati e alle previsioni. Non mancano poi le accuse di catastrofismo da una parte e di negazionismo dall’altra; etichette spesso cavalcate politicamente. Ma l’unico atteggiamento costruttivo, in questo come in tutti i campi del vivere civile, è quello di una concreta progettualità. Ciascuno, secondo le proprie competenze e capacità e secondo i propri ruoli, può e deve fare qualcosa per rendere più abitabile la nostra casa comune.
A cominciare da uno stile personale sobrio, sostenibile, sano. Tutto comincia sempre dalla conversione dei singoli: il mare è composto di tante gocce: “sono proprio io il custode di mio fratello”. La custodia verso l’altro e verso il creato, che diventa non solo rispetto ma vera e propria responsabilità, è uno stile globale, integrale: è impossibile custodire i fratelli abusando del creato o custodire il creato facendo violenza ai fratelli. Uno stile più attento ad evitare sprechi di energia e di materie prime e consumi inutili, a ridurre le immissioni di gas nocivi nell’atmosfera, a favorire il riciclo dei rifiuti secondo i criteri dell’economia circolare, fa bene alla propria salute psicofisica, oltre che al pianeta.
È chiaro che non basta: occorre ben altro. Ma il famoso e troppo usato “benaltrismo”, oltre che costituire un comodo alibi, dimentica che il bene “altro” comincia dal bene che compio io. E che quando il bene dei singoli si somma, in realtà si moltiplica: diventa bene “nostro”. La seconda sfera d’azione, quindi, è quella educativa. È cresciuta negli ultimi anni, tanto da diventare per i cristiani un “segno dei tempi”, la sensibilità ecologica specialmente nei ragazzi e nei giovani. Il sistema educativo scolastico e universitario forma le persone – docenti, alluni, famiglie – alla sostenibilità, facendo leva sui dati scientifici e sul senso di responsabilità etico di ciascuno. I risultati si vedono e vanno incentivati: l’educazione stessa, la cultura diffusa, plasma stili personali sobri e rispettosi verso il creato e verso gli altri.
L’impegno nella formazione personale e nell’educazione dei ragazzi e dei giovani diventa così una forza sociale, fa opinione, desta l’attenzione dei mondi economici e tecnici. Questi ambiti planetari, ben oltre la nostra portata, interagiscono però con i diversi corpi sociali. Noi cittadini abbiamo la possibilità di influire, quando ci organizziamo, sulle grandi scelte nei settori del commercio, della ricerca scientifica e della tecnologia. Possiamo “votare con il portafoglio”, cioè orientare acquisti e investimenti in modo da favorire i comportamenti virtuosi delle aziende e delle banche. In non poche situazioni, ad esempio, le preferenze motivate dei consumatori e dei clienti hanno determinato scelte più sostenibili da parte dei produttori e degli erogatori di beni.
Il mondo politico internazionale sta prendendo coscienza, ormai da decenni, della gravità rivestita dalla questione ecologica e dalla sua connessione con la questione sociale. La Conferenza di Rio de Janeiro nel 1992, il Protocollo di Kyoto nel 1997, la Conferenza di Parigi nel 2015, sono solo alcune delle tappe più significative di questo cammino. Nel settembre 2015 le Nazioni Unite hanno approvato l’Agenda 2030, che individua 17 obiettivi e 169 sotto-obiettivi per uno sviluppo sostenibile, attraverso la lotta contro le povertà, le ingiustizie e il degrado dell’ambiente. Questo programma è perfettamente in linea con l’enciclica Laudato si’, pubblicata tre mesi prima. Anche la Chiesa, infatti, si sta muovendo a tutti i livelli, sotto la decisiva spinta del magistero degli ultimi pontefici. Cercheremo anche noi, come diocesi, di incentivare il nostro contributo, integrando meglio nella formazione catechistica la custodia dell’altro con la custodia del creato e adottando i criteri di sostenibilità anche nella nuova edilizia di culto e nella manutenzione.
La consapevolezza che il creato è “la nostra casa comune” non potrà che farci bene. Quando io tratto la natura come “la mia cava privata” da cui estrarre materie prime, o “la mia cassa personale” da cui guadagnare profitti, cado nell’illusione – purtroppo praticata – di una “indifferenza” dell’ambiente rispetto ai miei comportamenti. Essendo però il creato una vera e propria “casa”, le mie azioni nei suoi confronti si riflettono su di me. Se la mia casa è sporca, se tengo le finestre chiuse anziché far entrare aria pulita, se getto i rifiuti sul pavimento invece di portarli fuori, se spreco acqua, luce e gas inutilmente, se lascio crescere umidità e muffa, ne risento prima di tutto io, perché mi indebolisco e mi ammalo; e ne risentono i miei familiari, in casa con me, specialmente quelli meno difesi come i piccoli, gli anziani, i più fragili. Questo succede troppo spesso nel mondo, grande “casa comune”, dove lo sfruttamento e l’inquinamento fanno ammalare e indeboliscono soprattutto chi non ha le forze per difendersi.
L’impegno per la salvaguardia del creato è una piattaforma comune a cristiani, ebrei e membri di altre religioni, a credenti e non credenti, a tutti gli uomini di buona volontà.
Il grido del suolo e il grido di Abele, sono gli orizzonti di impegno comune per un presente e un futuro sostenibile e dignitoso.
Erio Castellucci
Arcivescovo di Modena e Nonantola